lunedì 20 ottobre 2008

La figlia della gallina nera

E chi sono io? La figlia della gallina nera?” si diceva in casa quando si era vittima di un sorpruso o di una negligenza. L’ultima a essere servita a tavola o a ricevere il bacio della buonanotte, poteva lamentarsi di essere trattata come la figlia della gallina nera. O quella che riceveva meno regali a Natale si lamentava di essere la figlia della gallina nera. La figlia della gallina nera è trattata peggio delle altre gallinelle: è trascurata e messa da parte, un po’ come il brutto anatroccolo, nero anche lui nella favola di Andersen, ma di madre dalle piume bianchissime. Mia madre si lamentava di essere trattata come la figlia della gallina nera da alcuni commercianti di via Montenapoleone. Ci raccontava sempre di una volta in cui era entrata in una boutique per chiedere il prezzo di una camicetta. Davanti alla risposta esorbitante della commessa, mia madre si permise di dire a mezza voce: “Un po’ caro”. E la commessa rispose: “Non è caro, signora: è lei che non può spendere”. Tornò a casa abbattuta, con il sentimento di essere la figlia della gallina nera. Non so da dove provenga l’espressione. Forse da una favola contadina, che non sono riuscita a ritrovare. Pare che a Roma il figlio della gallina bianca sia il pupillo, colui che ha tutti i privilegi. Plinio racconta nella Historia Naturalis che Lavinia Drusilla, moglie di Cesare, ricevette tra le braccia una gallina bianca, lasciata cadere da un'aquila in volo, i cui figli sarebbero stati considerati sacri dagli Auguri.

La mia posizione di secondogenita mi fece lamentare spesso l’esclusione della figlia della gallina nera. Mi sembrava che mia madre non avesse mai abbastanza tempo per me, assorbita com’era dai suoi amori e dalla sua relazione privilegiata con mia sorella, figlia attesa per otto anni di matrimonio e nata proprio l’anno del suicidio di mio nonno nel luglio del 1964.

Bruna e grassoccia, ero molto meno bella di mia sorella, cosí bionda ed eterea. Mi sembrava di essere esclusa dall’affetto di mia madre anche per quella ragione fisica. Sentivo di arrivare comunque in ritardo, in un discorso già cominciato tra mia madre e mia sorella, dal quale io ero inevitabilmente tagliata fuori. Questo sentimento di emarginazione da figlia della gallina nera lo provo a volte ancora adesso, quando mi sembra che gli altri siano intenti nei loro discorsi e non abbiano tempo per prendermi in considerazione, che i giochi siano già fatti e io esclusa a priori.

venerdì 19 settembre 2008

La figlia della gallina nera


My new book on the history of my Milanese childhood is now out. Here's a review in Il Corriere della Sera.

Elzeviro: Un «lessico famigliare» milanese

VEDI ALLE VOCI BRU BRU E COCORITE

«Echi sono io? La figlia della gallina nera?» è un modo di dire che i lettori di certo conoscono: sottolinea un sopruso o una negligenza che in qualche modo ci riguarda. È il titolo del libro curioso e avvincente di Gloria Origgi, filosofa italiana che vive a Parigi (appunto La figlia della gallina nera, edizioni Nottetempo, pagine 125, 12,50). È una nuova specie di lessico famigliare che da privato fa presto a diventare pubblico, un' opera oltremodo femminile, come sottolinea anche la dedica «Alla memoria di mia madre. Per la memoria di mio figlio». «Le parole si portano dietro non soltanto la nostra storia, ma la storia di un' epoca, di un ambiente sociale, di una cultura», avverte l' autrice; «ho cominciato a scriverle e, pian piano, sono riemerse le persone, le atmosfere, i dolori della mia infanzia milanese». L' infanzia - e quindi la città - è quella degli anni Settanta, come si evince da una delle rare date (manca anche quella anagrafica dell' autrice) presente nella voce «Pigotta», la bambola di pezza confezionata dalla nonna per il Natale 1974: «... Non credevamo a Babbo Natale. Ma il laicismo non toglieva nessun incanto a quei natali all' alba, con mia madre addormentata in vestaglia e io e mia sorella stordite dall' ebrezza di scartare decine di pacchetti che ricoprivano il salotto di via Montenapoleone». Era, la sua, una Milano ricca, borghese. E anche «Comunista»: «Mio padre era iscritto al Pci dal 1948. Ascoltava jazz, frequentava le cineteche, leggeva Vittorini Durante una manifestazione operaia fu preso a manganellate in via Manzoni e salvato dal padrone del Don Lisander, il suo ristorante preferito. Lasciatelo stare, è il dottor Origgi!, e questo "dottor" l' aveva fatto identificare per un semplice esponente della borghesia rossa milanese». E così tra «Bru bru», «Cocorite», «Cose turche», «Esproprio proletario», «Mammalucco», «Signorina tu mi stufi», «Cosa mi guardi con quella faccia da sperduto di Allah?», «Refugium peccatorum» si arriva alla voce «Sotto quella dura scorza batte un cuore di pietra». Era il motto prediletto della madre, che rovesciava la tendenza del libro «Cuore», «allora dominante nella morale italiana della mia infanzia, per cui anche nel profondo dell' anima di un nazista a guardar bene batte un cuore d' oro». Lei sosteneva invece che perfino «la Milano-dal-cuore-in-mano decantata dai vecchi milanesi era più che altro un mito consolatorio per gli abitanti di una città spietata». E aggiungeva che la sua descrizione più appropriata si trova forse nel libro del grossetano e anarchico Bianciardi La vita agra. E noi la ringraziamo per averci ricordato un libro che oggi, dopo quarantasei anni, è ancora di scottante attualità, e uno scrittore che «pagò con la vita quella mancanza di cuore tutta lombarda».

Giulia Borgese

Pagina 43
(16 settembre 2008) - Corriere della Sera

martedì 8 luglio 2008

Se gu in de oeucc?

"Mi, se gu in des oeucc?" ossia, che cosa ho negli occhi, si ripeteva stupito il cognato di mia bisnonna Clelia Traverso, incredulo di come le donne lo guardassero per la strada. Si diceva irresistibile, e questo suo potere seduttivo, forse anche per rassicurare la moglie, era tutto racchiuso nel suo sguardo magnetico, dal quale nessuna donna poteva sottrarsi. Quel magnetismo lo discolpava da qualsiasi assunzione di responsabilità nella seduzione: erano loro, le donne a passeggio per il corso Monforte, che lui percorreva spesso per andare a prendere la moglie, che non lo lasciavano tranquillo, e cosa ci poteva fare, poveretto, se queste svergognate gli si buttavano contro senza ritegno? In casa mia si citava sempre questo lontano parente per cercare di discolparsi da qualche atto di seduzione, ma ovviamente chi pronunciava quelle parole era ben consapevole dell'ironia che le accompagnava. La seduzione era sempre subita, mai assunta come un'azione consapevole. Erano gli occhi chiari, anche di questo lontano parente, che in casa mia erano associati alla seduzione istantanea: l'occhio castano era invece pacato, modesto, lombardo, mentre nel blu degli occhi della mia famiglia si rifletteva il mare di Napoli. Il lontano parente credo che avesse occhi verdi e che facesse disperare la sua signora approfittando della clientela esclusivamente femminile del negozio di corsetteria di corso Monforte gestito dalla sorella della bisnonna Traverso.

sabato 21 giugno 2008

Acetone

L'acetone era la malattia della mia infanzia. La mamma mi annusava l'alito ed esprimeva la sua diagnosi sicura di acetone. L'acetone era la malattia e insieme il sintomo: l'odore intenso di acetone dell'alito rivela effettivamente la presenza di corpi chetonici nel sangue, risultato di un cattivo metabolismo o dell'ingestione di troppi grassi. Ma l'acetone della mia infanzia era un malanno più casalingo, tipica conseguenza di una colossale indigestione di caramelle, panna montata, panini al latte farciti di salame a qualche festa di compleanno di compagni di classe. Tornavo a casa nel freddo milanese intontita dalle grida degli amichetti e dall'esagerata merenda, la pancia mi si contraeva già per strada, la bocca si impastava, il senso di nausea aumentava. Una volta a casa, e una volta espressa la diagnosi di acetone, giungeva allora il momento del Cheto-test: la mamma mi faceva sedere sul bidé e mi raccomandava di far pipì su una piccola striscina di carta, una vera e propria cartina al tornasole per misurare il livello di acidità che i famosi chetoni avevano prodotto nel mio corpo: la cartina era di un rosa aranciato in partenza, e mi ricordo che le variazioni di colore potevano andare da un rosa porpora fino a a un viola intenso, quasi a toccare il limite del blu nei casi acuti di acetone. Quel verdetto percettivo così preciso mi affascinava e rimanevo incantata a cavalcioni sul bidé a vedere l'effetto diretto della mia pipì sulla diagnosi della mia condizione. Un viola intenso voleva dire soprattutto per me restare a letto l'indomani mattina, ma lasciava presagire anche una notte difficile di nausea e vomito. Previdente, la mamma mi metteva a letto con un grande asciugamano sul cuscino, sicura che non avrei avuto la forza di trascinarmi fino in bagno al momento dell'attacco.
Ho come l'impressione che l'acetone sia una malattia in via d'estinzione nei bambini di oggi. Come se fosse indissociabilmente legata alle abitudini alimentari dell'epoca, quei dolci troppo pesanti, quei chili di panna montata alle feste dei bambini...Malattia/sintomo per eccellenza, l'acetone non aveva cura propria, se non qualche attenzione alimentare, come bevande zuccherate o una soluzione granulare chiamata "Biochetasi" che acquietava i pericolosi chetoni restituendo l'equilibrio metabolico dei nostri corpicini infantili.